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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




II. Metacritica della critica (della ragion) letteraria.
Barthes e Adorno: il linguaggio è la sua ombra
di Giuseppe Crivella

16 febbraio 2016




Abstract: the text begins by noting that, more or less in the same years, without explicit contacts between the two authors, Roland Barthes and Theodor W. Adorno elaborate the notion of immanent critique. Developing at the fisrt author the theme of the langage and at the second author the theme of the paralinguistic, this study aims to show many convergences that link the tho authors in literary theory understood as metacritic of literary critic.

Keywords: Roland Barthes, Th. W. Adorno, Bouvard et Pécuchet, Paralinguistic, Language and Ideology.


È noto a tutti l’intento di Bouvard e Pécuchet: elevare ad un livello di trascrizione cosmica la loro micrologica attività di copisti in modo da imbrigliare tutto l’esistente nella fitta tabulazione di una nomenclatura cartesiana e trasparente, simile a una sorta di puntiforme enciclopedia del dato isolato che, letta dall’interno stesso della configurazione in cui si iscrive, trasforma il mondo in uno spazio desolato di realtà respinte in una lontananza astratta e rarefatta, le quali, osservate col distacco di una visione d’en haut, appaiono come un gremitissimo cimitero di sarcofagi vuoti.

Da una parte quindi abbiamo la tensione esasperante di uno spoglio compilativo indefesso, totalizzante, certosino e vorace, dall’altra invece troviamo la speculazione pura e senza presa sulle cose che cerca di mettere a punto un disegno classificatorio esatto e coerente, privo di lacune o sbavature, sagomato su un mondo ridotto alla più completa mansuetudine, levigato chiaro, docilmente amministrabile e senza tortuosità scomode, irregolarità improvvise, margini sfrangiati o tratti ambigui.

Bouvard e Pécuchet sono i protagonisti di una storia che racconta la ossessiva impresa di sistematizzazione del sapere, la quale paradossalmente finisce coll’avvitarsi attorno ad un insanabile dimidiamento interno, ad una sorta di labilissima lacerazione intestina che l’attraversa, facendo della nomenclatura messa in opera lo spazio-zero di una realtà divenuta ormai afona e insignificante, delle partizioni enciclopediche le celle mortuarie di un pensiero smembrato e informe, dell’ansia compilativa che agita e anima questo progetto il capriccio totalitario di uno sguardo disumano il quale contempla la realtà come un immenso cadavere da sezionare prima e tumulare poi.

Un’euforia archivistica venata di un denso fremito necrofilo possiede e scandisce l’opera dei due copisti, i quali ordinano, vagliano, selezionano, confrontano, registrano, trascrivono, equiparano e suddividono facendo calare sull’indistinta massa dell’esistente le affilatissime partizioni teoriche di una segmentazione del sapere che fa del pensiero il prodotto finito di un pathos calligraficamente tassonomico, da cui nulla può sfuggire o sottrarsi.

Bouvard e Pécuchet incarnano a pieno titolo la versione parodistica del sapere assoluto hegeliano, che nel pervenire a se stesso finisce col ridurre la realtà allo splendore devitalizzato di un corpo esposto a mummificazione. Essi stendono così sulle cose una scrittura che assomiglia ad un vasto sudario funebre, il quale si sagoma perfettamente sul profilo di ciò che ricopre impedendogli di respirare, soffocandolo e imprigionandolo sotto le forme di una aderenza linguistica che sostituisce alla presenza piena del mondo la inerme superficie bianca di una febbrile ostinazione compilativa, le cui enigmatiche apparenze denunciano con furibondo silenzio lo scarso credito con cui sono stati considerati i diritti dell’informe a cui essa ha sottratto ogni legittimità.

Per Bouvard et Pécuchet tutta l’opera di attenta narcotizzazione prima e cassazione poi dell’inclassificabile è però doppiata da un’impresa perfettamente simmetrica e inversa, che la solca e la travaglia con una grazia perversa e ostinata, costringendola ad arrestarsi e a ritornare su di sé, ripiegandosi sul proprio esercizio continuo di decomposizione analitica, disordinandone le suddivisioni logiche, aprendo temibili brecce nel processo di serrata catalogazione, facendo inoltre saltare le varie partizioni disciplinari, producendo microscopiche catastrofi nella possente topologia di quella sistematizzazione compatta che presumeva di conoscere e possedere il mondo solo a patto di sostituirsi ad esso.

Ecco quindi affiorare una falda di scrittura incongrua al progetto iniziale: la piena organizzazione del reale in una astrazione precisa inizia a manifestare zone di indecifrabilità, grumosità refrattarie alla penetrazione razionale, ruvidi punti di addensamento che ingorgano la trasparente digestione logica con cui il pensiero classificatorio supponeva di poter fagocitare l’esistente. In Bouvard et Pécuchet disegno teorico e attuazione pratica ad un certo punto si disgiungono, ostentano una inconciliabilità costitutiva, diventano piani repulsivi, si fronteggiano in un principio di inevitabile collisione ed esclusione reciproca.

A poco a poco Bouvard e Pécuchet si rendono conto che classificare significa falsificare, produrre una mistificazione che tocca e altera la natura interna del dato; irreggimentare il reale pertanto non produce sapere, ma lo annebbia, lo dilania e lo ridistribuisce secondo ordini di articolazione impropri all’oggetto conosciuto. A questo punto il loro lavoro di copisti, invece di subire una battuta d’arresto, compie una sorta di acrobatico volteggio su se stesso e inizia a riflettere sulla propria natura, sulle proprie pratiche di attuazione, sulla propria destinazione e realizzabilità. È qui che la scrittura letteraria rivela quella natura aporeticamente paralinguistica che Adorno così tratteggia:
il linguaggio è nemico del particolare e tuttavia è rivolto alla sua salvezza. Esso possiede il particolare, mediatogli dalla universalità e nella costellazione dell’universale, ma ai propri universalia il linguaggio rende giustizia solo quando essi non si irrigidiscono apparentandosi con l’apparenza del loro essere per sé, bensì si concentrano all’esterno su ciò che va specificamente espresso. Gli universalia del linguaggio ricevono la loro verità da un processo che corre nella direzione a loro contraria [...]. Nell’arte gli universali sono al massimo della loro forza lì dove l’arte si avvicina di più alla lingua: dice qualcosa e questo qualcosa, mentre viene detto, oltrepassa il proprio hic et nunc: ma tale trascendenza riesce all’arte solo in virtù della sua tendenza alla particolarizzazione capillare; e le riesce col non dire nient’altro che ciò che può dire in forza della propria formazione integrale, nel processo immanente. [1]
L’opera si scinde allora in uno sdoppiamento riflessivo, di cui la scrittura di Flaubert non si libererà più: mano a mano che il romanzo procede, la narrazione è colta da un capogiro concentrico sempre più vasto e destabilizzante. Mentre Bouvard e Pécuchet scrivono, Flaubert de-scrive la loro stessa scrittura, ne decodifica il portato manipolatore e ideologizzante; mentre essi trascelgono e suddividono, Flaubert rileva devianze, fa emergere resistenze, solleva dubbi e incongruenze che non possono essere assimilati o risolti, rende franoso e cedevole il suolo speculativo sul quale i due personaggi cercano di edificare la loro cattedrale di conoscenze, che Flaubert inquadra in controluce mostrando come essa in realtà proietti l’ombra di un immenso mausoleo del pensiero. Scopertasi priva di presa sulle cose e pertanto destituita di ogni funzione, la scrittura di Bouvard et Pécuchet diventa soltanto una maschera cava. È proprio per questo motivo che Barthes può affermare:
ciò spiega forse l’impotenza nella quale siamo di produrre oggi una letteratura realista: non è più possibile riscrivere Balzac, Zola, Proust o gli scadenti romanzi socialisti, sebbene le loro descrizioni si fondino su una divisione sociale che è ancora presente. Il realismo è sempre timido è vi è troppa sorpresa in un mondo che l’informazione di massa e la generalizzazione della politica hanno reso così profuso che è possibile raffigurarlo in modo proiettivo: il mondo, come oggetto letterario, sfugge; il sapere diserta la letteratura, che non può più essere né Mimesis, né Mathesis, ma solo Semiosis, avventura dell’impossibile linguistico, in una parola Testo (è falso sostenere che la nozione di testo raddoppi quella di letteratura: la letteratura rappresenta un mondo finito, il testo figura l’infinito del linguaggio). [2]
Simultaneamente elevata a potenza rispetto a se stessa e parassitaria nei confronti delle proprie funzioni, la letteratura è una matrice obliqua di contestazione endogena ai suoi stessi processi di generazione del senso. Bouvard et Pécuchet narra un fallimento che affetta senza requie lo sforzo di mettere in campo una parola schiettamente e seccamente denotativa la quale indichi l’oggetto o la relazione — vera, presunta o artefatta — che esso intrattiene con gli altri e, nell’indicarlo, riesca a subentrare surrettiziamente ad esso dissolvendolo, diventandone prima copia conforme e poi simulacro deforme, caricatura grottesca.

È insediandosi in questa oscillazione paradossale e vitale che la scrittura si affranca dalla sua funzione referenziale per divenire letteraria, per scoprire uno strato di linguaggio chiamato ad essere indefettibilmente immanente a sé e a quelle pratiche di designazione che vorrebbero espellerla o emarginarla, disinnescarne il portato sottilmente eversivo. Ed è in tal senso inoltre che, se all’inizio la scrittura di Bouvard et Pécuchet tende a solidificarsi in Libro, a compattarsi strenuamente nella conchiusa totalità di un sapere, di una Mathesis che sia anche e soprattutto Mimesis fedele e esauriente, nel momento preciso del fallimento di tale progetto quella stessa scrittura diviene testo, proliferazione infinita di una Semiosi che contesta i saperi specifici, mettendoli in continua frizione, dissocia le forme di razionalità acquisita rivelandone le latenti infiltrazioni ideologiche, sorprende la scienza alla spalle trasformandola da piana mappatura del reale mutilato in una trascrizione mobile di segni che déferlent su di esso. [3]

È quindi con la letteratura che il linguaggio inizia a pensare e a interrogare se stesso, divenendo in tal modo corrosivo e critico nei confronti delle forme e delle forze più o meno occulte, sotterranee e inapparenti che gestiscono e scandiscono in modo necessariamente coattivo il percorso del senso e l’uso dei segni. La prima scrittura di Bouvard et Pécuchet risponde esattamente ad un regime di puntuale somiglianza sebbene eterodiretta da criteri di organizzazione che la infestano senza possederla, poiché essa segretamente e quasi inconsciamente conserva e cova un nucleo immanente di liberazione ed emancipazione irriducibile e propulsivo, il quale nel momento in cui entra in azione non smette di generare all’infinito una seconda scrittura — quella appunto letteraria — che riesce ad abolire la falsa buona coscienza di ogni linguaggio. Osserva Barthes, proprio in merito a Bouvard et Pécuchet:
presso il farmacista di Falaise Bouvard e Pécuchet sottopongono la pasta di jojoba alla prova dell’acqua, «essa prese l’aspetto di una cotenna di lardo, cosa che denotava della gelatina». La denotazione sarebbe un mito scientifico: quello di uno stato “vero” del linguaggio, come se ogni frase avesse in sé un etymon (origine e verità). Denotazione/connotazione: questo doppio concetto non ha valore che all’interno del campo della verità. Ogni volta che io ho bisogno di verificare un messaggio (di demistificarlo) io lo sottopongo a qualche istanza esteriore, lo riduco a una sorta di cotenna disgraziata che ne forma lo strato vero. L’opposizione è quindi utile solo nel quadro di una operazione critica analoga a un esperimento di analisi chimica: ogni volta che io credo alla verità ho bisogno della denotazione. [4]
La denotazione appartiene quindi all’ambito di una verità ancora non vagliata, non messa alla prova, una verità a cui crediamo senza sottoporla all’onere della verifica. È per questo motivo che in Bouvard et Pécuchet la prima scrittura è utopica, mentre la seconda è atopica. Si tratta di una distinzione sottilissima che Barthes stesso a volte disattende o finge di dimenticare. Ad ogni modo, per come essa viene a prospettarsi nella fase tarda del suo pensiero, [5] suddetta distinzione può essere esposta nel modo seguente: I. Scrittura “utopica”: è tale perché, partendo dalla presunzione di poter inquadrare il dato reale nella sua oggettività, in effetti si propone unicamente di rettificare surrettiziamente il mondo, presentandolo diverso da come appare, suggerendone una versione edulcorata e sottoposta ad una operazione di accorta cosmesi non immediatamente avvertibile. Tale tipo di scrittura allinea l’esistente alle proiezioni immaginarie della ideologia a cui essa si richiama e dalla quale deriva secondo una matrice forzosamente genetica. La scrittura utopica incarna e inscena le contraffazioni di un potere che lavoro la realtà dell’interno, trasfigurandola sulla base di un principio perversamente adulterante che risulta tanto più operativo quanto più esso si sforza di presentare la scrittura che genera e che lo rappresenta come imbevuta di una ratio schiettamente referenziale. [6]

II. Scrittura atopica: non ha collocazione o posizione precisamente assegnata o assegnabile, se non quella che la situa mercurialmente all’interno della prima scrittura, immanente ad essa, rivestita del compito di farla implodere lentamente e quasi inavvertitamente. L’utopia ha qualcosa di reattivo e di strategicamente stabilizzante. L’atopia esibisce a tutti i livelli un’indole molesta, deforma dell’interno il coeso complesso di immagini offerte dalla prima scrittura, pone quest’ultima dinanzi a se stessa costringendola a riflettersi infinitamente come al centro di una illimitata fuga di specchi che finiscono col dissolvere l’oggetto che hanno di fronte.

L’utopia dunque è referenziale-analogica, rappresenta ciò che le incrociate tassonomie del potere hanno già selezionato come ammissibile. L’atopia è ellittica, rappresenta la spaventosa libertà di un linguaggio che non conosce e non ammette alcuna comune misura obbligato con l’oggetto preformato dalla ottusa pervasività del potere. La prima scrittura nasce e deriva da una operazione di previa irreggimentazione e addomesticamento ideologico che identifica una certa quota di esistete — autorizzato ad essere tale — con una certa dimensione di dicibile, mentre nello stesso tempo esclude nella sfera dell’imparlabile [7] — termine, come noto, amatissimo da Pasolini — tutto ciò che essa ravvisa come inconciliabile con la sua dimensione di dominio. Essa è inoltre denotativa in quanto ha già prodotto un immaginario collettivo, condiviso e socializzato, che non ammette deroghe e non aspetta altro che di essere comunicato e diffuso.

La seconda scrittura non ha antecedenti ad essa allotri rispetto alla classe di trasformazioni semiotiche che essa propone e comporta. Il suo ruolo fisiologico è quello di rappresentare la prima scrittura nel momento in cui questa viene colta nella sua spessore di artefatto ideologico, espressione pregiudizialmente pilotata di una pseudo-natura che sorge dall’oltraggio certosino e insistito del naturale: unico spazio del dicibile ove sia ancora presente ciò che Barthes chiama il «frisson du sens»:
il senso, prima di abolirsi nella in-significanza, è ancora attraversato da un brivido: c’è del senso, ma questo non senso non si lascia prendere; resta fluido, fremente di una leggera ebollizione. Lo stato ideale della socialità allora si dichiara: un immenso e perpetuo brusio anima sensi innumerevoli che scoppiano, crepitano, sfolgorano senza mai prendere la forma definitiva di un segno tristemente appesantito dal suo significato: tema felice e impossibile, poiché questo senso idealmente rabbrividente si vede impietosamente riafferrato da un senso solido (quello della Doxa [8]) o da un senso nullo (quello delle mistiche della liberazione). [9]
In tal senso la seconda scrittura è l’immanenza critica di una forma inflessibilmente eretica rispetto alla eteronomia che la minaccia. Ma che cosa vuol dire qui immanenza critica? Perché parlare di immanenza? Immanenza di cosa e rispetto a che cosa? Si tratta di una serie di domande che ci permettono di vedere i numerosi punti di contatto tra Barthes e Adorno poiché, tra i primi aspetti che dobbiamo rilevare, entrambi esplicitamente più o meno negli stessi anni si servono della formula di «critica immanente». [10]

Per quanto riguarda Barthes è in due loci testuali degli Essais critiques che troviamo questa espressione; [11] con essa si vuole intendere in primis la focalizzazione della critica letteraria su quella tecnica decettiva del senso che Barthes va enucleando nel corso di buona parte della sua ricerca più che ventennale. L’analisi immanente in secondo luogo ha un triplice aspetto che deve essere precisato:

1. È fenomenologica, in quanto esplicita delle potenzialità riposte o latenti del testo e della sua scrittura senza limitarsi a spiegare soltanto le presunte intenzioni dell’autore, spesso ricostruite post hoc e quindi senza possibilità di una verifica fattuale. [12]

2. È tematica, poiché interroga e porta alla luce il sistema di metafore interne all’opera in modo da sviluppare un’analisi del linguaggio letterario che sia in grado di muoversi lungo vari livelli di strutturazione, cioè da quello immediatamente legato ai significanti a quello iper-connotato dei metalogismi ricorrenti. [13]

3. È strutturale, in quanto è chiamata a scomporre il fatto linguistico non tanto sulla base di una matrice elementaristica, ma piuttosto secondo un asse di indagine che ne privilegi le complesse e interdipendenti caratteristiche funzionali. [14]

Ciò comporta due conseguenze necessarie e rilevanti: il linguaggio a questo punto diventa nello stesso tempo modello dell’analisi, strumento elettivo per condurre quest’ultima nei meandri delle varie scritture, ma anche problema, quindi oggetto di quell’indagine che esso ha il compito di gestire e scandire. Al tempo stesso esso si trova collocato, senza possibilità di liberazione, nello spazio mediano di una opposizione che non deve essere risolta, di una opposizione che lo vede ora come elemento positivo, quindi attivamente fungente all’interno dei processi dell’analisi, ora invece come componente negativa, ovvero percepito quale concrezione sospetta che necessita di una ulteriore operazione di vaglio e segmentazione per ripulirlo da eventuali infiltrazioni o sedimentazioni adulteranti. Il linguaggio diviene la frontiera di due pratiche gemelle e corrispondenti, di due attività di selezione e scomposizione che trovano in esso allo stesso tempo uno strumento e un banco di prova.

Inoltre tale stato di cose dimostra che non esiste un linguaggio a livello elementare, così come non esiste un linguaggio ridotto o riducibile al suo grado zero. Colto in questa problematica accezione [15] esso deve sempre essere trattato come il prodotto di una classificazione proveniente da forze ad esso estranee, seppure densamente costitutive della sua eterogenea compagine, e quale terminale critico per smontare e far implodere dall’interno queste classificazioni. Per questa ragione più volte Barthes parla esplicitamente di una natura parassitaria del linguaggio proprio della sua critica letteraria [16], natura parassitaria che non può quindi non generare una critica del linguaggio immanente al linguaggio stesso.

Ma arrivati a questo punto, che cos’è allora il linguaggio per Barthes? Una totalità funzionale che si struttura in modo capillare quale forma di forme, complementari, plastiche e inclusive le une rispetto alle altre. Ciò significa che l’intervento della critica immanente finisce col disfare il linguaggio — sezionandolo nella sua anodina duplicità — nel momento stesso in cui essa riesce ad inquadrare il mondo nel suo farsi senso plurale, indocile, non addomesticabile. La critica immanente si colloca nel luogo preciso di questa inaggirabile antinomia funzionale del linguaggio: gli ordini intellegibili che questo veicola sono sottoposti allora a traslazione perpetua, la quale ridistribuisce i significati attribuiti agli oggetti secondo una pratica di attenta ritrascrizione semantica della realtà. Catene associative, corrispondenze referenziali, strutture di equivalenze logiche vengono illuminante nella loro concreta dinamica funzionale per essere mandate in stallo, per essere messe in mora, per essere attentamente e capillarmente déjouées; la critica immanente non deve mostrare come funziona il linguaggio, ma perché funzioni in un certo modo e quali possibilità vi siano in esso perché funzioni in tutt’altra maniera. Lasciando la parola a Barthes possiamo quindi vedere che
la letteratura possiede uno statuto particolare, il quale le deriva dall’essere fatta di linguaggio, ovvero di una materia che è già significante rispetto al momento in cui la letteratura se ne impossessa; è necessario allora che essa scivoli in un sistema che non le appartiene ma che funziona nonostante tutto in base ai suoi stessi fini, ovvero comunicare. Ne consegue che le sfilacciature tra linguaggio e letteratura formano in qualche modo l’essere stesso della letteratura: quando voi leggete un romanzo, voi non consumate da principio il significato /romanzo/; l’idea di letteratura non è il messaggio [...] che voi ricevete: è un significato che voi recepite in più, marginalmente; voi lo sentite fluttuare vagamente in una zona para-ottica, ciò che consumate sono in breve le unità, i rapporti, le parole e la sintassi del primo sistema [la lingua]; e tuttavia l’essere di questo discorso che leggete (il suo reale) è proprio la letteratura e non l’aneddoto che esso vi trasmette; insomma, qui è il sistema parassita ad essere principale, poiché esso detiene la intelligibilità ultima dell’insieme: altrimenti detto, è lui ad essere reale. Tale sorta di inversione perversa delle funzioni spiega le note ambiguità del discorso letterario: è un discorso al quale si crede senza credere, poiché l’atto di lettura è fondato su una sorta di giravolta incessante tra i due sistemi: vedete le mie parole, sono linguaggio, vedete il mio senso, sono letteratura. [17]
È proprio per questo motivo inoltre che Barthes dedica uno dei saggio più importanti della sua raccolta del 1964 al fait divers, ovvero al fatto di cronaca [18] la cui analisi rivela una falsa innocenza dell’oggetto il quale viene inserito in una concatenazione narrativa che ostenta la più chiara dipendenza da una causalità aleatoria sotto la quale però la critica immanente svela la manipolazione chirurgica di un’opera mirata della significazione, la quale trasforma e trasfigura tutto nella compatta fisionomia di una vicenda sapientemente lavorata dai processi di una coincidenza ordinata propria dei sistemi di comunicazione di massa.

Senza alcun timore di forzare la mano, Barthes afferma con grande sicurezza che la letteratura è affine ad una mantica [19], dal momento che essa è allo stesso tempo intellegibile e interrogante, parlante e silenziosa, impegnata nel mondo tramite quel cammino del senso che questa compie insieme ad esso e simultaneamente emancipata dai sensi contingenti a cui che il mondo elabora e da cui è esso stesso elaborato: risposta che interroga e domanda che risponde.

In tal senso il linguaggio secondo della scrittura letteraria riesce a connotare il reale senza denotarlo, senza inchiodarlo o ridurlo cioè ad un pattern di sensi stabilizzati e selezionati a monte; per dir meglio, il ruolo svolto dalla critica immanente fa in modo che il mondo sia riletto sulla base di un fitto reticolo di segni refrattari ad ogni solidificazione o cristallizzazione. Per questo motivo, in ultimo, se da una parte la critica immanente è chiamata a sdoppiare sempre il linguaggio rivelandone la duplice natura transitiva e intransitiva, dall’altra essa ha per vocazione costitutiva quella di scindersi immancabilmente in una critica dell’opera e in una critica di stessa, restando quindi sempre immanente alle sue stesse strutturazioni di senso, che devono essere mantenute senza sosta in uno stato di sospensione, a partire dalla quale sarà poi possibile riattivare di conseguenza i sensi sclerotizzati o già necrotizzati imposti alla realtà.

È invece nei saggi raccolti sotto il titolo palesemente mendelsohniano di Noten zur Litteratur [20] che Adorno parla per la prima di critica immanente. Tale formula, variata in innumerevoli occorrenze, verrà poi ripresa e ampiamente sviluppata nel corso della monumentale Teoria estetica, pubblicata postuma nel 1970. L’accezione nella quale il filosofo tedesco intende quella formula è molto affine a quella barthesiana, sebbene nessuno dei due autori citi mai l’altro. Anche qui la critica immanente si muove partendo dal linguaggio, lavorando su di essi e in esso, facendo di esso un teatro mobile di commistioni e contrazioni logiche che sfociano nella instaurazione di un campo densamente tensivo di dilaniamenti silenziosi tra ciò che può essere espresso e ciò che deve essere detto, quali attestazioni latenti dei poteri della ideologia in opera nel linguaggio fin dalla sua strutturazione minimale. Proprio alla luce di ciò Adorno può affermare che la lingua seconda espressa dalla letteratura «incarna, anche come tollerata nel mondo amministrato, ciò che non si lascia organizzare e che l’organizzazione totale reprime». [21]

L’immanenza qui si configura da subito quindi come l’ombra che il linguaggio stesso proietta su di sé; in essa la parola dispiega il suo doppio fondo di segno e di oggetto, di parametro funzionale interno ad una struttura regolata di transizioni logiche che lavorano secondo una precisa predisposizione calcolata ab ovo, nonché di attrattore strano di compagini aberranti di senso. L’epifania del linguaggio [22] che viene a consumarsi nella letteratura fa sì che questa diventi una sorta di controverso sensorium semantico carico di informazioni corollarie e periferiche rispetto a quelle solitamente veicolate dal linguaggio-strumento proprio della ideologia: esso infatti colto secondo questa prospettiva parassitaria inizia a significare in forza di una sotterranea organizzazione metastatica che coinvolge e oltrepassa le delimitazioni e le prescrizioni esplicite della ideologia; non è un caso allora che Adorno affermi a distanza di poche pagine che «l’arte è mimesis spinta alla coscienza di se stessa» e che essa «ha il suo altro nella propria immanenza». [23]

Per questo motivo il linguaggio si manifesta oscuramente come il volto egizio della scrittura, la cui natura pretestuosamente mimetica è chiamata a riconoscersi, a riflettersi e a sdoppiarsi nella sospetta identità con se stessa e non con un referente esterno. Adorno chiama tale stato di cose momento paralinguistico [24] della lingua, il quale non va confuso con l’aspetto meta-linguistico proprio della linguistica, che ne è forse l’esatto contrario, dal momento che se quest’ultimo è una sorta di preliminare censimento logico delle possibilità generative del senso contenute nel funzionamento della macchina linguistica, il paralinguismo indica invece esattamente quell’inaspettato risorgere di costellazioni profonde, le quali appaiono come un segreto coacervo di condotte disfunzionali che mandano in frantumi il metalinguaggio, deviando le prestazioni della macchina linguistica verso una permanente catastrofe semantica.

Il paralinguismo quindi non smette di svilupparsi a partire da una precisa finalità immanente: distruggere ciò che tramite la predeterminazione dei sensi familiari viene offerto come ovvio e naturale, necessario e immutabile. Tale finalità immanente assume allora una doppia sfumatura: negativa in quanto essa mira a disfare risolutamente i prodotti della ratio dominante mettendone in subbuglio gli elementi chiave, riportandosi cioè alle loro configurazioni nucleari, ormai cristallizzate, e rifluidificandole in modo da revocare la violenza stessa della razionalità, frammentandone le sintesi con la stessa forza con la quale essa le produsse e le propagandò quali formazioni originarie dell’essere. Ma suddetta finalità immanente assume anche una finalità positiva in quanto il paralinguismo si propone di mantenere le forme in posizione di labilità, cerca di rimanere sempre eterogeneo ad esse esibendo ed ostentando la sua natura di pura costruzione, [25] in modo da rilevare quanto quelle stesse forme ad esso presuntivamente opposte gli siano in realtà affini quali prodotti di un pensiero che seleziona a monte la dicibilità del reale. Il paralinguismo quindi lavora all’interno del linguaggio con movenze da talpa, [26] costringendolo ad una progressiva decomposizione. Alla luce di tale lettura, necessariamente interpretazione, commento e critica devono operare di concerto, cospirando verso questa dinamica immanente, la quale mira a fare del linguaggio la scena ove la forma appare come un intricatissimo campo di collassi e ove sia possibile far regredire le operazioni di orchestrazione ideologica ad una fase apertamente aporetica [27] della loro generazione, così che il contenuto stesso diventi la negazione esplicita del senso veicolato. Pertanto alla costruzione del paralinguismo appartiene immanentemente la propria relativizzazione, in forza della quale
[essa] deve strutturarsi sì da poter all’apparenza interrompersi sempre quando lo voglia. Pensa in frammenti perché frammentaria è la stessa realtà, trova la propria unità attraverso le fratture, non attraverso il loro appianamento. L’unitarietà dell’ordinamento logico mistifica l’essenza antagonistica della realtà a cui fu imposto [...]. Suddetta costruzione logora le teorie che le sono vicine; la sua tendenza è sempre rivolta a liquidare l’opinione, anche quella con la quale essa inizia. [Il paralinguismo] è al forma critica per eccellenza, e cioè in quanto critica immanente di produzioni spirituali e confrontazione di quel che esse sono col loro concetto, critica della ideologia [...]. Perciò la legge formale del [paralinguismo] è l’eresia. Grazie alla violazione dell’ortodossia del pensiero si rende visibile nella cosa ciò la cui persistenza nella invisibilità costituisce in segreto lo scopo obiettivo della ortodossia. [28]
Ritornando al nostro esempio iniziale, possiamo dire che la prima scrittura di Bouvard et Pécuchet è una forma di linguaggio ancora non cariato dal paralinguismo; pertanto essa si presenta come una mimesi del mondo, ma del mondo inteso quale immagine secreta dalla ideologia. Il paralinguismo interviene in seconda battuta, assumendo una posizione ulteriore rispetto alla prima scrittura e assurgendo così a mimesi della mimesi del mondo delle immagini prodotte della ideologia. La sua intromissione, la sua interferenza nella linearità della concatenazione linguaggio-mimesi-ideologia, fa in modo che questa finisca con l’annodarsi improvvisamente in se stessa e su se stessa, portando così in emersione tutti i malcelati procedimenti di mistificazione che la ratio amministrante ha messo in opera per rendersi contemporaneamente attiva e invisibile.

Da quanto appena detto in merito ad Adorno discendono due conclusioni simmetriche, a loro volta ciascuna sdoppiata in una duplice alternativa. La prima coppia di conclusioni riguarda il soggetto, il quale si colloca in seno a tale stato di cose secondo una postura quasi indefinibile perché radicalmente scissa tra due possibilità reciprocamente esclusive l’una dell’altra:

1. La prima possibilità è quella dell’azzeramento, dell’«autospegnimento» [29] nel linguaggio e tramite il linguaggio. Modello di questa tipologia è il narratore dei romanzi di Proust, di Kafka e di Joyce, il quale si forma come un precipitato anomalo dalla fine di due grandi tradizioni: quella del narratore dalla presenza dilagante e soverchiante la vicenda narrata è da non confondere però col narratore onnisciente, ma piuttosto con una fisionomia affine a quella della persona loquens dei romanzi di Stendhal è e quella del narratore livellato alle convenzioni di una esposizione oggettivistica. Per Adorno il narratore contemporaneo deve essere equidistante da questi due eccessi simmetrici e ugualmente mistificanti e rilevarsi in forza della sua impotenza la quale gli permette di far tornare il mondo delle cose al centro del suo monologare. Cesellatore di un linguaggio secondo che sembra nascere dai cascami delle due tradizioni appena rievocate, tale narratore deve servirsi di una decaduta lingua oggettuale associativa la quale sarebbe in grado di esprimere il mondo da una prospettiva pre-individuale, in una sorta di lacunoso monologo collettivo. [30]

2. La seconda postula la formazione di un soggetto veuilleur, animato cioè da una sorta di strenua vigilanza mediata dal suo uso obliquo del linguaggio, di cui esempio impeccabile è agli occhi di Adorno Valéry, dal momento che la sua arte
incarna la resistenza della pressione indicibile che il semplice esistente esercita sull’umano. Essa si schiera dalla parte di ciò che noi potremmo un giorno essere. Non lasciarsi istupidire, non lasciarsi addormentare, non essere complici: queste sono le condizioni sociali che si sono sedimentate nell’opera di Valéry, opera che si rifiuta di stare al gioco della falsa umanità […]. Costruire opere d’arte per lui significa rifiutarsi all’oppiaceo in cui la grande arte sensoriale si è trasformata dall’epoca di Wagner, Baudelaire e Manet: rifiutarsi all’onta che rende le opere mezzi di comunicazione e del consumatori fa delle vittime della trattazione psicotecnica. [31]
La seconda coppia di conclusioni riguarda invece la tipologia di letteratura possibile proprio sulla base di quell’uso obliquo. Anche qui quindi Adorno propone due versioni parallele e inconciliabili: I. La prima idea di linguaggio è rinvenibile nelle Tracce di Bloch. Ad esso l’autore dedica un lungo saggio nella prima raccolta: la parola qui è dolorosamente attraversata dalla insanabile vulnerabilità del finito; ripiegato sulla dura resistenza che la particolarità delle cose oppone al pensiero e alle sue manipolazioni, il linguaggio delle Tracce blochiane esprime senza requie la persistente frattura tra soggetto e oggetto svelando, attraverso il ricorso ad un espressionismo viscerale e multiforme, che tutte le forme di millantata abolizione della reificazione in realtà finiscono col raggelarsi a mera ideologia. In tal modo Bloch mette a punto una topologia della metafisica intesa come «fenomenologia dell’immaginario», ove la trascendenza è trascritta in termini di profanità e proiettata nello spazio chiuso di una dialettica soggetta a pseudomorfosi. Il linguaggio che ha in mente Adorno interroga questo spazio, facendone emergere delle immagini enigmatiche a partire dalle quali è necessario pensare la fine come radice del mondo, in grado di muovere e sollecitare l’ente, e ove la fine stessa è intesa in termini di telos. [32]

II. La seconda idea di linguaggio si trova invece in Beckett. Al drammaturgo irlandese Adorno dedica uno dei saggi più corposi e brillanti dei due volumi: il linguaggio qui serve unicamente a illuminare e inquadrare la putrescenza dei fenomeni e della cultura; in tal modo esso regredisce e regredendo corrode e demolisce tutto quello che tocca. La parola pertanto non opera più nel segno della dicibilità degli oggetti ma li enuncia e li enumera puntando sempre al non-sense, alla fuga dal senso, o meglio, alla feroce e serissima parodia del dare senso a cose e vicende:
il procedimento di costruzione dell’insensato non si arresta neppure davanti alle molecole del linguaggio [così che comprendere Fin de Partie] vuol dire comprenderne l’incomprensibilità, ricostruirne concretamente il nesso significante, che consiste nel rendersi conto che esso non ne ha […]. Il pensiero di trasforma in una sorta di materia di secondo grado. [33]
Soggetto e linguaggio in Adorno sembrano fronteggiarsi per l’ultima volta prima dell’abolizione reciproca e speculare. Il soggetto infatti si colloca nella lingua come una infestazione, saturandola di significati logori di cui esso però non è padrone e all’interno dei quali esso si muove come un elemento derivato, come un necrotizzante effetto di superficie. Riassorbirsi nel linguaggio significa allora ridestare la parola verso una primordialità del dicibile solo postulatorio, sebbene pulsante nel rovescio di ogni linguaggio. Per Adorno quest’ultimo deve essere condotto fino al proprio collasso interno, al proprio eccesso furioso di indicibilità affastellate e intricate; Beckett e Bloch, come visto, segnano la via per l’attuazione di questo disegno, additando con le loro opere diversissime il convulso spazio scenico di una fisiognomica espressiva che conserva sempre qualcosa di enigmatico, una sorta di frastornato sonnambulismo del dire, il quale spinge il linguaggio a polarizzarsi unicamente intorno allo stadio terminale del suo deteriorarsi ad incessante ripetizione di un amalgama di elementi contratti nell’opprimente staticità di una realtà ormai disgregatasi. Partendo da tale stato di cose, l’esprimibile non allude più alle cose, ma nasce dallo sfacelo delle proprie forme vuote, da una grammatica dismessa il cui contenuto sia declinabile solo all’ablativo, priva di ogni contatto con lo spessore della parola e quindi orfana della propria elettiva funzione di sintesi. Per Beckett, e di riflesso per Adorno, usare il linguaggio significa fare una partita a scacchi ove i pezzi siano frammenti informi di oggetti ormai irriconoscibili e la scacchiera un logoro quadrato monocromo. [34]

Critica immanente e paralinguismo arrivano a coincidere, si corrispondono perfettamente nei metodi e negli intenti, esattamente come in Barthes collimano senza resto critica immanente e semiologia, intesa come capillare decostruzione della linguistica. Da ciò deriva inoltre un’altra affinità tra i due pensatori, quella cioè che li porta ad intendere la critica letteraria come responsabilità delle forme [35], come inesausta riflessione su un impegno che scelga di estrinsecarsi applicandosi sul modo in cui un’opera è fatta, sui criteri che essa adotta per infrangere il «potere reprimente della forma» è per dirla con Adorno [36] è al fine di liberare quella «vasta immaginazione del linguaggio» che per Barthes finisce col dare luogo è in autori come Sollers, ad esempio è ad una letteratura concepita quale aurorale «cosmogonia della parola». [37]

In Barthes quindi la critica immanente fa in modo che le varie traiettorie del dispositivo ideologico prendano a sfaldarsi secondo delle linee di frattura divergenti: il linguaggio si ripiega su se stesso e genera una scrittura che svuota felicemente e perversamente le proprie raffinatissime logiche di produzione del senso. Il mondo viene così restituito a una sua sorda opacità di oggetti inassimilabili alle disseccate e annichilenti codificazioni della lingua, mentre la nozione di mimesi galleggia lacera e negletta sulla superficie delle cose con le lemuriche movenze di un fantasma prossimo al dissolvimento definitivo. [38]

Che la letteratura pertanto sia concepita quale immanente sabotaggio del linguaggio che utilizza non esprime in ultimo null’altro se non la più alta forma di consapevolezza concernente il fatto che siamo costretti a vivere in un’epoca in cui a nessuna verità è ormai più concesso di essere innocente o, ancor peggio, innocua.


[1] Th. W. Adorno, Teoria estetica, ed a cura di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1971, pp. 342-343. Corsivi nostri. Inoltre sempre Adorno conia l’espressione qui adeguatissima di «pensiero topologico, che di ogni fenomeno sa in che casella rientri, ma di nessuno che cosa sia», cfr Th. W. Adorno, Prismi, Saggi sulla critica della cultura, trad. it. di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1981, p. 21.

[2] OC IV, p. 694. Qui Barthes fa riferimento alla sua lezione inaugurale tenuta al Collège de France nel 1977, cfr. CO V, pp. Corsivi di Barthes. Traduzione nostra.

[3] Ciò che più o meno qualche anno prima Pasolini aveva chiamato infinitosemia, cfr P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1991, p. 209.

[4] Ivi, p 646. Traduzione nostra.

[5] Ivi, p. 629.

[6] Barthes ha sempre intrattenuto un rapporto, se non conflittuale, di certo polemico con la nozione di utopia e su di essa è tornato più volte modificando spesso i suoi punti di vista in merito. Optiamo però qui per una caratterizzazione velatamente negativa del lemma perché è lo stesso Barthes a suggerirla in un testo tardo – cfr, OC V, p. 629 – e perché nella lezione inaugurale del 1977 tra i due termini egli sceglierà /atopia/ per indicare quel luogo al di fuori delle classificazioni proprie della parola gregaria verso cui il Testo spinge il senso, cfr. OC V, p. 441. Sull’utopia cfr. anche OC IV, pp. 652 e 531 e OC V, pp. 436.

[7] Cfr. P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Mondadori, Milano 1977, pp. 77, nonché P. P. Pasolini, Empirismo eretico, cit., p. 257.

[8] Alla Doxa Barthes dedica analisi molto acute, cfr. OC V, 631.

[9] Brano intitolato proprio Le frisson du sens, Ivi, p. 674.

[19] Basti un esempio per Adorno: nelle 400 pagine della sua Teoria estetica i richiami ad una logica immanente propria della critica letteraria sono oltre settanta. Già alla fine degli anni ’40 Adorno aveva iniziato a parlare di critica immanente, cfr. Th. W. Adorno, Prismi, cit., pp. 15 e sgg.

[11] OC II, pp. 500 e 518.

[12] Ivi, p. 500.

[13] È probabile che qui Barthes più che Mauron o Richard, grandi esponenti della critica tematica, avesse presente il padre di quest’ultima, ovvero Gaston Bachelard.

[14] Su questo soprattutto OC II, 418.

[15] Barthes stesso parla di linguaggio-problema, cfr. Ivi, 523. Barthes non smetterà di tornare su questo punto e i riferimenti nella sua opera sono innumerevoli, ad esempio nella celebre lezione inaugurale del 1977 parla della sua semiologia come di «una decostruzione della linguistica», e del textum come di un indice di dépouvoir, in grado cioè di sottrarsi a quel tipo di lingua travagliato dal potere, OC V, pp. 439-441.

[16] Ivi, p. 512.

[17] Ivi, p. 512-513. Traduzione nostra.

[18] Structure du fait divers, Ivi, pp. 442-451.

[19] Ivi, p. 475. [20] Th. W. Adorno, Note per la letteratura I e II, ed. it. a cura di E. de Angelis, Einaudi, Torino 1977, passim.

[21] Th. W. Adorno, Teoria estetica..., p. 391.

[22] Th. W. Adorno, Note II..., p. 212.

[23] Th. W. Adorno, Teoria estetica, pp. 432-433.

[24] Ivi, pp. 211 e anche Teoria estetica..., soprattutto pp. 342-344.

[25] È per questa ragione che lo scenario lugubremente negativo di Fin de partie di Beckett alla fine dispiega una forza di affermazione che nessuna opera piattamente positiva possiede, cfr Th. W. Adorno, Note I..., pp. 267-308, ma anche Teoria estetica, pp. 415-416.

[26] Celeberrima immagine che Adorno usa per indicare il lavoro di spoglio testuale proprio del metodo benjaminiano, cfr. Note II..., 246.

[27] A proposito del «compito aporetico», cfr. Teoria estetica..., p. 357.

[28] Th. W. Adorno, Note I..., pp. 21, 24 e 30.

[29] Ivi, p. 78. In più punti Adorno naturalmente sottolinea che tale concezione non ha assolutamente in comune con la visione heideggeriana di una ontologizzazione del linguaggio come ascolto dell’Essere.

[30] Ivi, p. 44.

[31] Ivi, p. 119.

[32] Cfr. Le «Tracce» di Bloch, Ivi, pp. 220-237.

[33] Ivi, pp. 267-268. Corsivo nostro.

[34] Qualche anno prima rispetto ai due saggi da noi presi in esame, Adorno aveva già affrontato la vexata quaestio riguardante i rapporti soggetto-linguaggio arrivando a dire: «la soggettività sa di non essere più il centro vivificatore del cosmo. Essa si abbandona a quel meraviglioso che accadrebbe se i meri contenuti, abbandonati dal significato, vivificassero per forza propria la soggettività che si va estinguendo. Non sono le cose a cedere come simboli della soggettività, ma è la soggettività che cede come simbolo delle cose, pronta a irrigidirsi infine in se stessa divenendo quella cosa in cui viene comunque già trasformata dalla società», cfr. Th. W. Adorno, Prismi, cit., p. 229, il saggio è dedicato al carteggio tra Stefan George e Hugo von Hofmannsthal e risale alla fine degli anni ’30.

[35] OC V, p. 601.

[36] Th. W. Adorno, Teoria estetica..., p. 431.

[37] OC V, pp 597 e 599.

[38] In questo senso vanno lette le riflessioni di Adorno in merito alla necessità di una narrativa che prenda atto del radicale irrealismo a cui questo stato di cose la espone, cfr. Note I..., pp. 133-149.



Theodor W. Adorno

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